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Mobbing e responsabilità nella Pubblica Amministrazione: analisi dell'ordinanza della Cassazione n. 29310/2024

Mobbing e responsabilità nella Pubblica Amministrazione: analisi dell’ordinanza della Cassazione n. 29310/2024

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L’ordinanza n. 29310 del 13 novembre 2024 della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, rappresenta un’importante occasione per riflettere sulla configurazione della responsabilità in ipotesi di mobbing e sulle implicazioni giuridiche relative ai rapporti di lavoro nella Pubblica Amministrazione. La pronuncia nasce dal ricorso di un ex dipendente del Ministero della Giustizia contro una funzionaria, accusata di comportamenti vessatori. Ecco un’analisi dettagliata dei punti principali della decisione.


1. Configurazione del mobbing e la responsabilità giuridica

La Corte ribadisce che la responsabilità per mobbing può assumere diversa natura giuridica a seconda delle figure coinvolte. Nel caso specifico, il ricorrente sosteneva che i comportamenti della funzionaria configurassero una violazione dell’art. 2087 c.c., norma che impone al datore di lavoro di adottare tutte le misure necessarie per tutelare l’integrità fisica e morale dei dipendenti.

Tuttavia, la Cassazione ha escluso l’applicabilità dell’art. 2087 c.c. nei confronti della funzionaria, chiarendo che quest’ultima, non essendo titolare del rapporto di lavoro, non poteva essere considerata “datore di lavoro”. La responsabilità della funzionaria, dunque, ricade nell’ambito dell’illecito aquiliano ex art. 2043 c.c., applicabile quando il danno sia causato da dolo o colpa. Conseguentemente, la prescrizione segue il termine quinquennale previsto per gli illeciti extracontrattuali.

Mobbing e responsabilità nella Pubblica Amministrazione: analisi dell'ordinanza della Cassazione n. 29310/2024

2. Mobbing e rapporto di immedesimazione organica

Un elemento cruciale della decisione riguarda il rapporto di immedesimazione organica tra il dipendente pubblico accusato di mobbing e l’Amministrazione. Il ricorrente ha cercato di dimostrare che la funzionaria, agendo in virtù del proprio ruolo dirigenziale, fosse da considerarsi come datore di lavoro, richiamando l’art. 2087 c.c.

La Corte ha respinto questa interpretazione, sottolineando due aspetti chiave:

  1. Ruolo del datore di lavoro: Il vero datore di lavoro, titolare del rapporto contrattuale, è il Ministero della Giustizia, non la funzionaria. Pertanto, un’eventuale violazione contrattuale doveva essere attribuita al Ministero e non a un collega, anche se in posizione gerarchicamente superiore.
  2. Responsabilità del dipendente: La condotta della funzionaria è stata inquadrata come responsabilità extracontrattuale, configurabile solo ai sensi dell’art. 2043 c.c. In questo caso, il ricorrente avrebbe dovuto dimostrare il danno ingiusto e l’elemento soggettivo di dolo o colpa.

Questo chiarimento rafforza l’orientamento secondo cui, nei casi di mobbing, è fondamentale distinguere tra responsabilità del datore di lavoro (contrattuale) e responsabilità di altri dipendenti (extracontrattuale). La confusione tra queste figure può portare all’inammissibilità delle azioni legali.


3. Prescrizione e durata del comportamento mobbizzante

Un altro punto contestato dal ricorrente è il termine di prescrizione dell’illecito. Egli sosteneva che i comportamenti vessatori si fossero protratti anche dopo la cessazione del rapporto di lavoro e che la prescrizione dovesse decorrere dalla comunicazione ufficiale del decreto di cessazione, avvenuta nel 2009.

La Corte ha rigettato questa tesi, stabilendo che il termine decorre dalla cessazione effettiva dell’attività lavorativa, accertata nel caso di specie al 16 settembre 2004. Le richieste di rivalutare i fatti sono state giudicate inammissibili, essendo già state esaminate nei gradi precedenti.


4. Ruolo dell’Avvocatura dello Stato e legittimità della difesa

Un punto di discussione rilevante riguarda l’intervento dell’Avvocatura dello Stato per la difesa della funzionaria accusata. Il ricorrente ha contestato la legittimità della rappresentanza, sostenendo che l’Avvocatura non fosse autorizzata a intervenire in una controversia tra dipendenti.

La Cassazione ha chiarito che il ricorso all’Avvocatura dello Stato è regolato dall’art. 44 del R.D. n. 1611 del 1933. Tale norma prevede che l’Avvocatura possa rappresentare e difendere i dipendenti pubblici in cause civili o penali connesse al servizio, previa richiesta dell’amministrazione. La Corte ha precisato che:

  • La decisione di richiedere la rappresentanza all’Avvocatura è un atto interno, insindacabile dal giudice.
  • Non esiste alcun obbligo per l’Avvocatura di motivare questa scelta o di dimostrarne i presupposti durante il processo.
  • L’intervento è discrezionale, purché collegato a fatti inerenti al servizio.

La sentenza rafforza il principio che l’Avvocatura opera per salvaguardare l’interesse pubblico e che il suo intervento può essere contestato solo in casi di manifesta illegittimità.


Conclusioni

L’ordinanza n. 29310/2024 della Cassazione rappresenta un importante punto di riferimento per chiarire la configurazione della responsabilità in ipotesi di mobbing nella Pubblica Amministrazione. Essa ribadisce che:

  • La responsabilità per mobbing di un dipendente può essere configurata solo come extracontrattuale ai sensi dell’art. 2043 c.c., salvo il coinvolgimento diretto del datore di lavoro.
  • Le azioni legali devono individuare correttamente il soggetto responsabile, evitando sovrapposizioni tra ente e singoli dipendenti.
  • L’Avvocatura dello Stato può legittimamente intervenire in difesa di dipendenti pubblici, purché la questione sia connessa al servizio.

Questi principi offrono linee guida fondamentali sia per i dipendenti pubblici che intendano agire contro situazioni di mobbing, sia per gli operatori del diritto chiamati a gestire tali controversie.

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