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Nel panorama del lavoro contemporaneo, influenzato dalla digitalizzazione e dal crescente peso dei social media, una delle figure più discusse – e fino a poco fa meno regolamentate – è quella dell’influencer. In parallelo si è affermata anche la figura del content creator, un termine ombrello che racchiude chi crea contenuti digitali su piattaforme come YouTube, TikTok, Instagram, podcast e blog.
Queste nuove professioni hanno rivoluzionato il mondo della comunicazione e del marketing, ma hanno anche posto interrogativi importanti sul fronte giuridico e previdenziale. Per anni, infatti, l’ordinamento non ha fornito un inquadramento chiaro, lasciando spazio a interpretazioni diverse da parte dei giudici. Solo di recente, grazie alla circolare INPS n. 44/2025, si è cominciato a tracciare una linea guida ufficiale che mira a tutelare lavoratori e aziende in modo più efficace.
Fino all’intervento dell’INPS, la figura dell’influencer si è trovata al centro di un acceso dibattito giuridico. In diversi casi, i giudici italiani hanno cercato di ricondurre questa attività a modelli contrattuali esistenti, data l’assenza di una disciplina ad hoc.
Alcune pronunce hanno definito il rapporto come una prestazione di lavoro autonomo generico, altre come un contratto di sponsorizzazione. Tuttavia, la decisione che ha fatto maggiormente discutere è quella del Tribunale di Roma, sentenza n. 2615/2024, che ha inquadrato l’attività di alcuni influencer come rapporto di agenzia, ai sensi dell’art. 1742 del Codice Civile.
Secondo i giudici romani, vi erano gli elementi tipici dell’attività dell’agente: promozione stabile e continuativa dei prodotti di un’azienda, una certa autonomia, ma anche un rapporto di natura economica durevole. La conseguenza? Gli influencer, in questa prospettiva, rientrano nell’obbligo di iscrizione a Enasarco, con l’obbligo per il “preponente” (cioè il brand o l’azienda committente) di versare i contributi previdenziali, oltre all’accantonamento dell’indennità di fine rapporto.
Questa impostazione ha sollevato non pochi dubbi e interrogativi. È davvero corretto assimilare un influencer a un agente di commercio? L’assenza di una regolamentazione specifica ha creato un clima di incertezza normativa, con il rischio di riqualificazioni contrattuali retroattive e conseguenze legali non trascurabili per le aziende.
Dopo anni di incertezza normativa, il 2025 ha segnato un importante punto di svolta per content creator e influencer. Con la circolare n. 44 del 19 febbraio 2025, l’INPS è intervenuta in modo chiaro per fornire un primo, solido inquadramento previdenziale di queste nuove figure professionali.
Pur in assenza di una normativa organica che definisca espressamente l’attività degli influencer, l’Istituto ha scelto di applicare i principi generali del diritto del lavoro e della previdenza, analizzando le concrete modalità di svolgimento dell’attività per determinare il corretto regime contributivo.
Il cuore del documento ruota attorno a un’idea tanto semplice quanto cruciale: non è il nome con cui si definisce un’attività a determinarne il trattamento fiscale e previdenziale, ma il modo in cui viene svolta. Ed è proprio da questo principio che derivano le tre principali tipologie di inquadramento identificate.
Nel primo scenario descritto dall’INPS, ci si trova di fronte a content creator che operano con modalità imprenditoriali. Si tratta di professionisti che non si limitano a produrre contenuti in modo artigianale o occasionale, ma che gestiscono un’attività organizzata, dotata di strumenti tecnici, collaboratori, investimenti e, soprattutto, di un modello economico strutturato.
In questi casi, l’INPS non ha dubbi: si rientra a pieno titolo nell’ambito dell’attività d’impresa. Questo comporta obblighi specifici, come l’iscrizione alla Camera di Commercio, l’adozione di un codice ATECO coerente (oggi disponibile grazie all’introduzione del 73.11.03 dedicato a influencer e content creator), e l’iscrizione alla Gestione Commercianti INPS.
È il caso tipico dello youtuber che produce video con regolarità grazie a un team tecnico, del podcaster che gestisce uno studio di registrazione o del creator che coordina campagne pubblicitarie complesse per conto di diversi brand.
In una realtà molto diffusa, però, l’attività del content creator non ha nulla di aziendale. Molti professionisti operano in totale autonomia, senza struttura organizzativa né mezzi di produzione rilevanti. Il loro lavoro si basa principalmente sull’apporto creativo e intellettuale, svolto personalmente, senza vincoli di subordinazione e con piena libertà nella scelta dei contenuti e delle collaborazioni.
In questo secondo caso, l’INPS prevede l’inquadramento come lavoratore autonomo. Il creator, se svolge l’attività in modo abituale, dovrà aprire partita IVA, adottare il codice ATECO corretto e versare i contributi alla Gestione Separata INPS.
La valutazione sull’abitualità dell’attività si basa su diversi elementi: frequenza delle prestazioni, reddito prodotto, regolarità nella fatturazione, utilizzo professionale dei social, presenza di contratti o collaborazioni stabili. Tuttavia, anche un’attività saltuaria può generare obblighi contributivi, se il reddito supera determinate soglie.
C’è poi una terza categoria di casi, meno intuitiva ma sempre più frequente. Si tratta delle situazioni in cui il content creator partecipa a produzioni artistiche o audiovisive, o collabora con brand per la creazione di contenuti pubblicitari a carattere spettacolare.
In questi contesti, il creator – anche se opera sui social – può rientrare nelle categorie già tabellate dei lavoratori dello spettacolo, come previsto dalla normativa italiana. È il caso dell’influencer che recita in uno spot, del tiktoker che viene ingaggiato per interpretare un ruolo in una campagna video, o dell’instagrammer che partecipa a eventi promozionali in veste di testimonial artistico.
L’INPS specifica che in queste situazioni il lavoratore va assicurato al Fondo Pensioni per i Lavoratori dello Spettacolo (FPLS). In questo caso, il versamento dei contributi spetta all’agenzia o al brand che commissiona la prestazione, in qualità di datore di lavoro o committente.
Un punto interessante è che l’aspetto artistico o spettacolare dell’attività non deve necessariamente coincidere con la notorietà del creator, ma con il tipo di prestazione resa e con la sua finalità. Quando si crea contenuto a fini pubblicitari, infatti, l’elemento della spettacolarità può emergere anche in forma non tradizionale, ma comunque rilevante per fini previdenziali.
A suggellare questo nuovo scenario è stato introdotto, a partire dal 1° gennaio 2025, il codice ATECO 73.11.03, dedicato specificamente al mondo dell’influencer marketing e della content creation. Questo passaggio, apparentemente tecnico, ha in realtà una forte valenza politica e simbolica: per la prima volta, lo Stato riconosce formalmente l’esistenza di queste professioni, attribuendo loro un codice identificativo ufficiale, indispensabile sia per fini fiscali che previdenziali.
Questo riconoscimento contribuisce a legittimare socialmente ed economicamente queste figure, che fino a pochi anni fa erano considerate marginali, se non addirittura “non professioni”. Oggi invece, anche grazie a strumenti come il nuovo codice ATECO, il content creator viene finalmente inserito in un ecosistema di lavoro regolamentato, con diritti, doveri e tutele alla pari degli altri lavoratori.