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Con l’entrata in vigore della legge 203/2024, che ha introdotto la possibilità per il datore di lavoro di considerare il rapporto cessato in presenza di una prolungata assenza ingiustificata del dipendente, si è aperto un nuovo capitolo nella gestione del recesso dal contratto di lavoro subordinato. Ma a sollevare interrogativi e interpretazioni è stata soprattutto la circolare 6/2025 del Ministero del Lavoro, che ha fornito una prima lettura ufficiale della norma. Il Consiglio nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro ha subito colto alcune criticità e ha sollevato dubbi formali con una nota del 2 aprile, a cui il Ministero ha replicato con una risposta protocollata il 10 aprile 2025.
Vediamo cosa è emerso e quali potrebbero essere gli sviluppi concreti per aziende e professionisti.
Uno degli aspetti che ha suscitato maggiore dibattito riguarda la durata dell’assenza ingiustificata necessaria per far scattare la nuova procedura. La legge non definisce un termine fisso, ma lo prevede “salvo diversa disposizione dei contratti collettivi nazionali”. Eppure, secondo il Ministero, nella sua lettura ufficiale, i contratti collettivi possono solo allungare – e non ridurre – la soglia minima di 15 giorni stabilita dalla normativa.
Questo passaggio ha fatto scattare l’allarme tra i consulenti del lavoro, che leggono nella norma una delega piena alla contrattazione collettiva, senza vincoli unidirezionali. Secondo loro, l’intento del legislatore era proprio quello di offrire uno strumento flessibile, adattabile alle diverse realtà produttive e ai ritmi specifici dei vari settori. Imporre un limite minimo, peraltro senza un chiaro fondamento normativo, rischia di vanificare questa apertura.
Il Ministero, nella sua replica, riconosce che la sua è una scelta prudenziale, motivata dall’esigenza di tutelare il lavoratore da eventuali abusi, ma lascia anche intendere che la questione potrebbe essere oggetto di future reinterpretazioni da parte della giurisprudenza. In altre parole, l’ultima parola – almeno per ora – potrebbe non essere stata detta.
Un altro passaggio importante della risposta ministeriale riguarda gli effetti della procedura in caso di contestazioni. Cosa succede se il lavoratore dimostra di non aver potuto comunicare i motivi dell’assenza? O se l’Ispettorato del Lavoro rileva che non vi fossero i presupposti per attivare la procedura?
Il Ministero chiarisce che, in tali casi, il rapporto di lavoro non si ricostituisce automaticamente. Sarà il datore di lavoro, eventualmente, a decidere se reintegrare il lavoratore. Una posizione che appare coerente con l’assetto normativo, dove il recesso per fatti concludenti non segue lo schema delle dimissioni volontarie formali e, di conseguenza, non prevede un meccanismo rigido di reintegro.
È chiaro che questo passaggio rimanda potenzialmente alla sede giudiziale ogni valutazione di merito: sarà il tribunale, se interpellato, a dover valutare se la condotta del lavoratore fosse effettivamente interpretabile come dimissionaria e se il datore abbia agito in buona fede.
L’ultimo nodo interpretativo riguarda il caso, raro ma possibile, in cui il lavoratore presenti le dimissioni per giusta causa dopo l’inizio della procedura di cessazione, ma prima che essa produca effetti. Il Ministero lascia intendere che, in tal caso, saranno le dimissioni a determinare la cessazione del rapporto.
Questa ipotesi, per quanto teoricamente corretta, si scontra con una realtà operativa che difficilmente consentirà una tale sovrapposizione temporale. Infatti, come specificato nella circolare 6/2025, gli effetti della procedura sono legati alla comunicazione dell’assenza e alla data indicata nel modello Unilav, che segna l’inizio del conteggio. È quindi poco probabile che ci sia lo spazio pratico per un intervento del lavoratore che possa “anticipare” gli effetti della procedura con le proprie dimissioni.
Tuttavia, il fatto che il Ministero si esprima su questo scenario apre la strada a una riflessione più ampia: è davvero chiaro il confine tra volontà implicita e manifestazione esplicita della cessazione? E soprattutto, chi stabilisce il momento esatto in cui il rapporto può considerarsi concluso?
La nuova disciplina sulle dimissioni per fatti concludenti rappresenta senza dubbio un passo avanti nella semplificazione delle dinamiche di cessazione del rapporto di lavoro, specie nei casi di abbandono del posto. Ma come ogni innovazione, porta con sé interrogativi interpretativi che necessitano di un equilibrio tra tutela del lavoratore e certezza per il datore.
La risposta del Ministero del Lavoro offre alcuni chiarimenti importanti, ma anche spunti di riflessione critica. La scelta di limitare l’autonomia contrattuale nella definizione del termine minimo appare poco in linea con l’impianto normativo e con la direzione che, negli ultimi anni, ha visto rafforzare il ruolo della contrattazione collettiva come strumento di regolazione dinamica del lavoro.
Il futuro della norma dipenderà molto da come sarà interpretata nei tribunali e dalla capacità del legislatore di ascoltare le esigenze reali del mondo del lavoro. Per ora, si tratta di una procedura utile, ma che ha ancora bisogno di chiarimenti.