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La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 7848 del 25 marzo 2025, torna a pronunciarsi su una questione delicata che riguarda la legittimità del licenziamento disciplinare in presenza di un rifiuto da parte del dipendente di ricevere una comunicazione aziendale. Il caso specifico, nato da un contenzioso tra una lavoratrice e la società datrice di lavoro, offre spunti di grande interesse per chi si occupa di diritto del lavoro.
La vicenda origina da una contestazione disciplinare notificata alla lavoratrice il 28 maggio 2021, fondata su due comportamenti: la realizzazione di registrazioni audio-visive non autorizzate in ambito aziendale e il rifiuto di ricevere la suddetta comunicazione formale da parte del datore di lavoro. La Corte d’Appello di Lecce, prima, e la Cassazione, poi, si sono trovate a valutare la rilevanza disciplinare di entrambe le condotte.
Il giudice d’appello aveva riconosciuto l’illegittimità del licenziamento, ritenendo la prima condotta (le registrazioni) legittima, poiché effettuata per la tutela di diritti e, quindi, lecita secondo la giurisprudenza consolidata in materia. La seconda, pur qualificabile come insubordinazione, era stata considerata di scarsa gravità e quindi non sufficiente, da sola, a giustificare la sanzione espulsiva.
La lavoratrice ha impugnato la sentenza in Cassazione lamentando, tra gli altri, la mancata ammissione delle prove testimoniali e la violazione dell’onere della prova a carico del datore. Tuttavia, la Corte ha dichiarato inammissibili i primi due motivi di ricorso, ribadendo un principio chiaro: il comportamento oggetto di valutazione non era il contenuto della nota disciplinare, bensì il rifiuto opposto dalla lavoratrice al momento della consegna della stessa.
Secondo i giudici, la condotta – rifiutare di ricevere una comunicazione aziendale – è di per sé significativa sotto il profilo disciplinare, perché viola il dovere di collaborazione del dipendente e ostacola il regolare funzionamento dell’organizzazione aziendale. La Cassazione ha sottolineato che i giudici di merito, in primo e secondo grado, avevano concordemente accertato il fatto, rendendo inammissibile ogni richiesta di riesame nel merito.
In sostanza, l’insubordinazione derivante dal rifiuto – anche se riferita a un singolo atto – è stata ritenuta idonea a giustificare il licenziamento, confermando così l’orientamento secondo cui certi atteggiamenti di chiusura nei confronti del datore, specie se reiterati o privi di giustificazione, possono minare irrimediabilmente il vincolo fiduciario.
Un ulteriore elemento rilevante è la decisione della Corte sul terzo motivo di ricorso, relativo alle spese processuali. La lavoratrice riteneva ingiusta la sua condanna al pagamento delle spese, poiché comunque era stata riconosciuta l’illegittimità del licenziamento. Ma la Suprema Corte ha chiarito che, in mancanza di un appello incidentale della società, e con il rigetto integrale dell’appello della lavoratrice, il giudizio si era chiuso a suo sfavore. Di conseguenza, l’applicazione del principio della soccombenza da parte della Corte d’Appello era pienamente legittima.
La Cassazione ha rigettato il ricorso della lavoratrice e l’ha condannata al pagamento delle spese legali. Questa pronuncia si inserisce in un solco ben definito della giurisprudenza lavoristica: il rifiuto di interagire con il datore di lavoro in momenti cruciali della relazione professionale, come la ricezione di una contestazione disciplinare, può costituire una forma di insubordinazione grave, legittimando anche il recesso per giusta causa.
In un panorama giuridico dove la tutela dei diritti del lavoratore resta centrale, questa decisione ricorda che il rispetto delle regole procedurali non è un semplice formalismo, ma il fondamento stesso della correttezza nei rapporti di lavoro.