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Nel contesto del rapporto di lavoro subordinato, il lavoratore è soggetto al potere organizzativo e direttivo del datore di lavoro, che può adottare una serie di decisioni gestionali nell’ambito dell’attività produttiva. Tra queste rientra anche la possibilità di modificare, ove necessario, il luogo in cui viene resa la prestazione lavorativa, senza che ciò comporti un cambiamento definitivo del contratto. Questo tipo di modifica prende il nome di trasferta.
È importante sottolineare che la decisione di inviare il lavoratore in trasferta è unilaterale, ossia rientra nel potere discrezionale del datore di lavoro e non richiede il consenso del dipendente. La giurisprudenza ha più volte confermato questo principio: ad esempio, con la sentenza n. 20833 del 15 ottobre 2015, la Corte di Cassazione ha ribadito che si tratta di un’espressione legittima del potere direttivo, nel rispetto dei limiti imposti dalla legge e dalla Costituzione (art. 41), in particolare per quanto riguarda la tutela della dignità e della salute del lavoratore.
La trasferta è uno spostamento temporaneo del lavoratore verso una sede diversa da quella abituale, disposto per esigenze aziendali. Non comporta una modifica della sede contrattuale del rapporto di lavoro e, pur svolgendosi altrove, la prestazione continua a essere inserita nel contesto organizzativo della sede di origine.
Non esiste una definizione normativa di trasferta. Tuttavia, la giurisprudenza e la contrattazione collettiva hanno individuato con chiarezza le caratteristiche che la distinguono da altri istituti, come il trasferimento o il trasfertismo.
L’elemento centrale della trasferta è la temporaneità dello spostamento. Ciò significa che il lavoratore è chiamato a svolgere la sua attività in un luogo diverso per un periodo limitato, con la previsione certa di un ritorno alla sede originaria. Non è necessario indicare con precisione la data di rientro, ma deve esserci un piano organizzativo che garantisca la natura provvisoria dell’assegnazione.
La giurisprudenza ha chiarito che la temporaneità non viene meno anche se la trasferta si protrae per un lungo periodo, a condizione che il rientro sia previsto. Ad esempio, la Cassazione, sentenza n. 14380/2020, ha affermato che una trasferta può conservare il proprio carattere anche in presenza di una permanenza prolungata, se non sussiste l’intenzione di modificare in modo stabile la sede lavorativa. Un principio analogo è stato espresso dalla sentenza n. 6240/2006, che ha precisato come la trasferta non perda la sua natura neppure se il luogo temporaneo coincide con quello di un futuro trasferimento.
Il secondo elemento essenziale è la permanenza del legame funzionale con la sede aziendale originaria. Il lavoratore resta parte integrante dell’organizzazione aziendale da cui proviene, continua a ricevere ordini e direttive da essa, e non viene assorbito da un diverso contesto lavorativo. Questo distingue la trasferta dal distacco, dove il lavoratore è invece inserito, almeno temporaneamente, nell’organizzazione di un altro soggetto.
Anche qui, la giurisprudenza è intervenuta per chiarire il concetto. Il Tribunale di Milano, con la sentenza del 4 luglio 2016, ha evidenziato che il lavoratore in trasferta conserva un vincolo operativo e gestionale con la sede originaria. La Cassazione, sentenza n. 8135 del 2008, ha rafforzato questa posizione, affermando che lo svolgimento della prestazione in un’altra località non rompe il legame giuridico e funzionale con la struttura organizzativa da cui dipende.
Il trasferimento comporta una modifica definitiva del luogo in cui si svolge l’attività lavorativa, con conseguente cambiamento della sede contrattuale. La trasferta, invece, è temporanea e non altera in modo permanente il rapporto.
Il trasfertismo, infine, riguarda quei lavoratori che, per natura contrattuale o funzionale, non hanno una sede fissa. Come chiarito dal DL 193/2016, convertito nella Legge 225/2016, e successivamente ribadito dalla circolare INPS n. 158/2019, si parla di trasfertismo solo se il contratto non indica una sede stabile, le mansioni richiedono una continua mobilità, e viene riconosciuta un’indennità fissa a prescindere dalla reale trasferta effettuata.
Per compensare il disagio connesso allo spostamento, la contrattazione collettiva o l’accordo aziendale può prevedere il riconoscimento di un’indennità di trasferta. Questa somma ha, secondo la Cassazione n. 14047/2020, una natura mista: da un lato ha funzione risarcitoria, poiché copre le spese sostenute dal lavoratore; dall’altro ha una componente retributiva, che compensa l’aggravio dovuto alla mobilità.
Il trattamento fiscale delle somme riconosciute in occasione della trasferta è regolato dall’articolo 51, comma 5, del TUIR (D.P.R. 917/1986). La norma prevede specifici regimi agevolati, sia fiscali che contributivi, esclusivamente per le trasferte effettuate al di fuori del territorio comunale della sede abituale di lavoro.
Il TUIR distingue tre modalità di rimborso:
Per le trasferte dentro lo stesso comune, invece, il TUIR non prevede esenzioni: le somme corrisposte a titolo di indennità o rimborso concorrono al reddito, salvo le spese di trasporto documentate (come biglietti di autobus, taxi o car sharing).
Con l’entrata in vigore della Legge di Bilancio 2025 (L. 207/2024), il TUIR è stato modificato per adeguarsi ai criteri di trasparenza fiscale. Da quest’anno, le spese di trasferta saranno esenti da tassazione solo se sostenute con strumenti di pagamento tracciabili, come carte di credito, bancomat, bonifici o assegni. Questo vale per spese di vitto, alloggio, viaggio e autoservizi pubblici non di linea.
Quando il lavoratore utilizza il proprio veicolo per svolgere la trasferta, ha diritto a un rimborso chilometrico calcolato in base alle tabelle ACI. Tali tabelle prendono in considerazione il tipo di auto, i consumi medi, l’ammortamento e l’assicurazione, sulla base di una percorrenza annua convenzionale di 15.000 km.
Il rimborso è fiscalmente esente solo se rientra nei limiti ACI e se il lavoratore documenta analiticamente i dettagli della trasferta: data, percorso, chilometri percorsi e tipo di veicolo utilizzato.
Secondo la nota INAIL n. 4465/2008, il datore di lavoro è tenuto a comunicare all’Istituto la trasferta del lavoratore solo se durante tale periodo questi sarà esposto a rischi diversi da quelli per i quali è già assicurato. La comunicazione va fatta entro 30 giorni dalla variazione.
La circolare INAIL n. 52/2013 ha poi stabilito che gli infortuni occorsi durante una trasferta devono essere considerati in “occasione di lavoro”. Sono dunque indennizzabili gli incidenti che avvengono nel tragitto casa-sede di missione, tra alloggio e luogo di lavoro, o anche all’interno dell’alloggio stesso. Sono invece esclusi gli eventi dovuti a comportamenti irrazionali o a iniziative non collegate alla prestazione lavorativa.
La trasferta rappresenta uno strumento essenziale nella gestione del personale subordinato, utile per rispondere a esigenze produttive, operative o logistiche. È però fondamentale che essa mantenga due caratteristiche imprescindibili: la temporaneità dello spostamento e il mantenimento del legame funzionale con la sede abituale. Il quadro normativo e giurisprudenziale, unito alla disciplina fiscale del TUIR, garantisce il giusto equilibrio tra le esigenze datoriali e la tutela del lavoratore.