Physical Address
304 North Cardinal St.
Dorchester Center, MA 02124
Physical Address
304 North Cardinal St.
Dorchester Center, MA 02124
Il licenziamento di un lavoratore che ha testimoniato in giudizio a favore di un collega può essere considerato nullo se motivato da intenti ritorsivi. A stabilirlo è la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 8857 del 3 aprile 2025, che interviene su una vicenda particolarmente significativa in tema di libertà del dipendente e tutela della funzione testimoniale.
Il caso trae origine da un contenzioso tra un’azienda e un suo collaboratore, formalmente inquadrato come agente. Un collega, regolarmente assunto come dipendente, viene chiamato a testimoniare nel processo e fornisce elementi determinanti per l’accertamento della natura subordinata del rapporto, con conseguente condanna dell’azienda alla ricostituzione del rapporto di lavoro e al pagamento di tutte le spettanze maturate ex art. 2094 c.c.
Poco dopo la sua testimonianza, il lavoratore viene licenziato per giusta causa. L’azienda giustifica il provvedimento sostenendo che la dichiarazione resa in giudizio sia falsa, ma – elemento decisivo – non presenta alcuna denuncia per falsa testimonianza, nonostante si tratti di un’ipotesi penalmente rilevante.
Il lavoratore impugna il licenziamento ricorrendo al Tribunale di Milano con rito Fornero, chiedendo che venga accertata la natura ritorsiva del recesso e, di conseguenza, la sua nullità. Il giudice del lavoro accoglie il ricorso sia in fase sommaria che nella successiva fase a cognizione piena. In appello, la Corte territoriale conferma l’illegittimità del licenziamento, pur riducendo l’indennità risarcitoria spettante al lavoratore in funzione dell’aliunde perceptum, ovvero i redditi percepiti nel periodo successivo al licenziamento.
La società decide quindi di ricorrere in Cassazione. Tuttavia, la Suprema Corte rigetta il ricorso, riconoscendo la piena correttezza del ragionamento dei giudici di merito. Secondo la Cassazione, non si è trattato di un normale licenziamento disciplinare, bensì di un recesso determinato da un motivo illecito – la volontà punitiva dell’azienda nei confronti del dipendente per la sua collaborazione processuale. Si tratta, quindi, di un licenziamento ritorsivo e, come tale, nullo ai sensi dell’art. 1345 c.c., poiché basato su un motivo illecito unico e determinante.
Particolarmente rilevante è anche l’aspetto legato al calcolo dell’indennità. La Corte ribadisce che, nei casi in cui un rapporto formalmente autonomo viene riconosciuto come subordinato, non può farsi riferimento alla retribuzione tabellare prevista dal CCNL, bensì alla media delle provvigioni percepite nell’anno precedente al licenziamento. È un principio già affermato dalla giurisprudenza (Cass. n. 33444/2022) e nuovamente confermato in questa occasione.
Secondo la Cassazione, il semplice fatto che l’azienda non abbia presentato querela per falsa testimonianza smonta l’intera impalcatura accusatoria. La contiguità temporale tra la testimonianza e il licenziamento, unita all’assenza di un vero procedimento penale, dimostra chiaramente la natura ritorsiva del recesso.
La sentenza in commento rafforza un principio fondamentale del diritto del lavoro: nessun dipendente può essere punito per aver reso una testimonianza veritiera, tanto più se ciò avviene nell’esercizio di un dovere giuridico. Il licenziamento adottato per motivi ritorsivi non solo è ingiustificato, ma è anche radicalmente nullo, e come tale espone il datore di lavoro a gravi conseguenze sia economiche che reputazionali.
Con questa pronuncia, la Corte di Cassazione ribadisce l’importanza della tutela della funzione testimoniale e riafferma che i rapporti di lavoro non possono trasformarsi in strumenti di intimidazione o ritorsione nei confronti dei lavoratori che esercitano diritti fondamentali.