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Con l’ordinanza n. 29400 del 14 novembre 2024, la Corte di Cassazione è intervenuta con decisione su un tema di grande rilievo giuridico e sociale: la prova del mobbing sul posto di lavoro. Questo provvedimento, destinato ad avere un impatto rilevante nella prassi giurisprudenziale, chiarisce quali siano gli oneri probatori che gravano sul lavoratore quando denuncia condotte vessatorie da parte del datore di lavoro, e contribuisce a rafforzare il quadro interpretativo in materia di responsabilità contrattuale fondata sull’articolo 2087 del Codice Civile.
La pronuncia ha il merito di ribadire e sviluppare principi già noti, ma anche di precisare in modo incisivo che il mobbing, pur potendo manifestarsi attraverso atti formalmente legittimi, può costituire una violazione dell’art. 2087 c.c., qualora tali atti siano unificati da un intento persecutorio sistematico e reiterato, volto a isolare, emarginare o danneggiare psicologicamente il lavoratore.
L’articolo 2087 c.c. stabilisce che l’imprenditore è tenuto ad adottare tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, siano necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore. Si tratta di una norma di portata generale che fonda la responsabilità contrattuale del datore di lavoro in caso di mancata protezione del dipendente da condizioni lavorative nocive, sia sotto il profilo fisico che psicologico.
Nel caso specifico del mobbing, la Corte ha puntualizzato che si tratta di una fattispecie peculiare di inadempimento contrattuale, che si distingue dalle altre violazioni dello stesso articolo proprio perché le condotte persecutorie del datore di lavoro possono apparire, isolate, formalmente corrette. È solo la loro reiterazione e la loro finalizzazione sistematica all’emarginazione del lavoratore a determinare la violazione degli obblighi di protezione imposti dalla legge.
La vicenda oggetto dell’ordinanza ha origine dalla domanda di risarcimento danni presentata da un dipendente di un ente successivamente confluito nell’INAIL. L’uomo aveva lamentato una serie di comportamenti vessatori e discriminatori avvenuti tra il 1998 e il 2003, chiedendo il riconoscimento di un danno complessivo pari a oltre 840.000 euro. Tuttavia, il Tribunale di Roma, con sentenza n. 56/2015, ha rigettato integralmente la richiesta. La Corte d’Appello di Roma, chiamata a pronunciarsi sul gravame, ha confermato la decisione con sentenza n. 733/2019.
A seguito del doppio rigetto, il lavoratore ha presentato ricorso in Cassazione, articolando cinque motivi di doglianza. L’INAIL, dal canto suo, ha resistito con controricorso. La Suprema Corte ha tuttavia dichiarato inammissibile il ricorso, ritenendo infondate le censure sollevate e ribadendo la correttezza dell’iter motivazionale seguito dalla Corte territoriale.
Uno degli aspetti centrali dell’ordinanza è costituito dalla riflessione sul ruolo della prova nel giudizio sul mobbing. Con il primo motivo di ricorso, il lavoratore lamentava un presunto errore di percezione da parte della Corte d’Appello in merito alla ricognizione delle prove documentali agli atti. La Cassazione, però, ha chiarito con fermezza che non è compito del giudice di legittimità rivalutare il merito delle prove, funzione riservata ai giudici di merito.
Il ricorrente, nella sostanza, aveva tentato di ottenere una rivalutazione del materiale probatorio, cosa che la Corte ha rigettato sottolineando come la Corte d’Appello avesse già fornito una motivazione dettagliata e coerente. Per esempio, episodi come la mancata partecipazione a una conferenza o il presunto “furto di ferie” sono stati analizzati con attenzione dal giudice d’appello, il quale aveva verificato che tali situazioni erano giustificate da circostanze oggettive e non erano affatto espressione di una volontà discriminatoria.
Il vero nucleo della questione, secondo quanto affermato dalla Suprema Corte, risiede nell’onere del lavoratore di dimostrare l’intento persecutorio che accomuna le singole condotte, anche qualora esse siano formalmente corrette. Il principio affermato è che, se il lavoratore denuncia una violazione dell’art. 2087 c.c. senza invocare il mobbing, dovrà semplicemente provare l’inadempimento e il nesso causale tra tale inadempimento e il danno. Invece, se si denuncia una condotta mobbizzante, l’onere della prova diventa più complesso: il lavoratore dovrà dimostrare, oltre al titolo e al danno, anche la presenza di un disegno persecutorio unificante le condotte contestate.
Tale interpretazione è in linea con precedenti consolidati, tra cui si ricorda la sentenza n. 10992 del 9 giugno 2020, che aveva già chiarito come l’onere probatorio relativo all’intento persecutorio gravi sul lavoratore, e non sulla pubblica amministrazione o sull’ente datore di lavoro.
Un altro punto critico sollevato dal ricorrente riguardava la presunta violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, nonché la nullità della sentenza per motivazione apparente. Anche in questo caso la Cassazione ha ribadito che il giudice d’appello aveva motivato adeguatamente le proprie scelte, specificando che l’assorbimento di alcuni motivi d’appello è del tutto legittimo quando il rigetto dei motivi principali rende superfluo l’esame degli ulteriori rilievi.
La motivazione, inoltre, non è apparente se contiene un ragionamento logico e coerente, come nel caso in esame. Il tentativo del ricorrente di trasformare la valutazione del giudice in un vizio processuale è stato dunque giudicato infondato.
Nell’affrontare la tematica del risarcimento dei danni da mobbing, la Corte ha anche ricordato i principi generali della responsabilità contrattuale, così come delineati dalla sentenza n. 13533/2001 delle Sezioni Unite. Secondo tali principi, il creditore (in questo caso il lavoratore) che agisce per ottenere il risarcimento deve semplicemente dimostrare l’esistenza del suo diritto e dichiarare l’inadempimento. Sarà poi il debitore (cioè il datore di lavoro) a dover dimostrare di aver correttamente adempiuto ai propri obblighi.
Tuttavia, nel caso del mobbing, il quadro probatorio si complica, proprio perché l’inadempimento non si sostanzia in un singolo atto illecito, ma in una serie di condotte illecite solo nella loro dimensione sistematica e persecutoria. È questo intento discriminatorio reiterato che rende il comportamento lesivo e quindi sanzionabile.
L’ordinanza n. 29400/2024 rappresenta un importante contributo all’evoluzione giurisprudenziale in materia di mobbing lavorativo. Essa non solo conferma la centralità dell’art. 2087 c.c. nella tutela del lavoratore, ma chiarisce anche in modo definitivo che la prova dell’intento persecutorio è essenziale per qualificare una serie di condotte come mobbing.
Ne consegue che il lavoratore non può limitarsi a denunciare generici episodi di malessere o conflitto, ma deve fornire elementi concreti, documentati e coerenti che dimostrino la sussistenza di una vera e propria strategia persecutoria messa in atto dal datore di lavoro. In assenza di tale dimostrazione, anche un comportamento discutibile, ma formalmente legittimo, non potrà essere qualificato come mobbing.
L’ordinanza conferma dunque che il mobbing non si presume e che la sua configurazione giuridica richiede un’onere probatorio rigoroso. Un principio che rafforza la certezza del diritto, ma al tempo stesso impone una maggiore attenzione nella raccolta delle prove a chi ritenga di essere stato vittima di vessazioni sul luogo di lavoro.
La corte in particolare ha affermato i seguenti principi di diritto:
Le ipotesi di mobbing costituiscono violazioni dell’art. 2087 c.c. e, quindi, integrano fattispecie di responsabilità contrattuale che si caratterizzano, rispetto alle altre infrazioni del menzionato art. 2087 c.c., per il fatto di assumere rilievo principalmente in presenza di una serie di condotte legittime del datore di lavoro unificate da un intento persecutorio le quali, nonostante la formale correttezza dell’operato del detto datore, rappresentano, comunque, proprio in ragione di tale intento, un inadempimento agli obblighi derivanti dal citato art. 2087 c.c.
Il lavoratore che lamenti la violazione della prescrizione dell’art. 2087 c.c. è tenuto, sul piano della ripartizione dell’onere probatorio, a riscontrare il fatto costituente inadempimento dell’obbligo in questione nonché il nesso di causalità materiale tra l’inadempimento stesso ed il danno da lui eventualmente subito, mentre non è gravato dall’onere della prova relativa alla colpa del datore di lavoro danneggiante; peraltro, ove denunci la ricorrenza di un’ipotesi di mobbing, egli deve non solo allegare l’inadempimento datoriale e provare il titolo del suo diritto, il danno asseritamente subito e il nesso causale fra detto inadempimento e il pregiudizio lamentato, ma anche dimostrare l’intento persecutorio di controparte.